Sono successe così tante cose dall’ultima volta che sono passata di qui che non so nemmeno da dove iniziare…fondamentalmente la vita adesso si divide in ciò che è successo “prima della pandemia” e quello che è successo “dopo la pandemia”. E la vita prima di marzo 2020, prima che il coronavirus travolgesse ognuno di noi, sembra lontanissima.
Con Cervantes siamo riusciti a restare amici, nel senso che ho smesso di cercarlo, evito di frequentarlo in coppia anche perché sinceramente non saprei cosa dirgli. Lui si è trincerato in quella sua incomunicabilità che mi fa sentire di non aver nulla in comune e nulla da poter condividere con lui.
La vita sociale in tempi di pandemia ha subito una drastica riduzione. La solitudine è diventata la normalità, ha spazzato tutto ciò che di buono avevo costruito in questi quattro anni a Bankfurt e l’efficienza teutonica inizia a diventarmi insopportabile. I crucchi e il loro complesso da primi della classe, la loro superiorità perché “il virus non è un problema nostro.” Mortacci vostra.
In questo clima d’incertezza sono riuscita a rivedere il mare, mi sono tuffata in acque cristalline circondata da pesci bellissimi che mi facevano il girotondo intorno come se fossi un’incantevole sirena. Ho capito che sott’acqua è dove mi sento meglio, ad osservare un mondo silenzioso che nasconde infinite meraviglie, visibili solo a chi le sa apprezzare.
Ho visto l’Italia delle contraddizioni, quelle in cui una stella marina è circondata da buste di plastica nell’indifferenza di tutti. L’Italia fatiscente e vicina al baratro, in cui nessuno sembra più stupirsi di niente, tutto è come è sempre stato e sempre sarà. Con la differenza che stavolta nel baratro ci finiamo per davvero.
In uno di quei gloriosi giorni al mare ho conosciuto l’ennesimo tipo cervellotico, misterioso e indecifrabile che ha incrociato il mio cammino, anche se stavolta ci passiamo ben 11 anni di differenza, un ragazzino insomma. Eppure abbiamo trascorso una di quelle giornate perfette, di quelle che il giorno dopo ti fanno svegliare con quella sensazione agrodolce che non vorresti mai lavare via, dalla bocca e dal cuore.
Forse se non fossimo nel mezzo di una pandemia dovrei chiedermi perché mi attirano tanto questi tipi così emozionalmente distanti da me? Ragazzi cervellotici, indecifrabili e misteriosi che poi una volta che finalmente riesci a codificare il loro codice scopri che non significa assolutamente niente. Ragazzi negativi e arrabbiati con la vita, di quelli che se va tutto bene ti mollano perché non hanno fiducia né in loro stessi né nel tuo amore. Perché mi sento sempre come se stessi sul punto di mettermi le scarpe da corsa per correre una maratona dietro qualcuno che poi non vorrà farsi prendere?
Forse se non fossimo nel mezzo di una pandemia sarei qui a chiedermi se posso sperarci almeno stavolta oppure se andrà a finire come tutte le volte precedenti, sarei qui a cercare d’interpretare minimi segnali che forse non sono segnali o che nella migliore delle ipotesi sono segnali che non per forza devono avere un significato, come quando lui mi guarda inaspettatamente negli occhi e mi sorride e io sento un fuoco accendersi dentro di me.
Forse se non fossimo nel mezzo di una pandemia sarei qui a chiedermi perché mi trovo sempre ad elemosinare attenzioni da chi attenzioni non ne sa o non ne vuole dare. Sarebbe davvero il caso di farsi seriamente queste domande e di iniziare anche a cercare una risposta perché da questa dipende la mia felicità.
Ma si dà il caso che siamo nel mezzo di una pandemia e io mi sono riscoperta più fragile e vulnerabile che mai. Ho toccato con mano l’amara verità che la vita è un attimo, che posso ritenermi fortunata perché entrambi i miei genitori sono ancora vivi mentre quelli di alcuni miei amici non ci sono più, e che, in questi mesi difficilissimi in cui anche il più noioso dei lavori si è dimostrato una sicura ancora di salvezza, dobbiamo sfruttare ogni situazione a nostro vantaggio, se abbiamo la fortuna di poterlo fare.
E soprattutto la pandemia ha riportato a galla l’annosa questione mai risolta: qual è la mia casa? Sarei pronta a lasciare la terra teutonica e a tornare in patria italica dopo 13 anni di assenza se ne avessi la possibilità? Sarei pronta ad accettare le incredibili contraddizioni e imperfezioni italiane senza lasciarmi sopraffare da esse? Non è anche questa parte del processo di autoaccettazione?
Ho toccato il fondo perché con il ragazzino la strada è più in salita delle volte precedenti, non solo per gli 11 anni di differenza che pesano e peseranno (non è questo forse un modo per alzare il dito medio alle convenzioni sociali? Non è forse questo uno dei tanti modi in cui la mia incapacità di vivere una relazione sana vuole manifestarsi?), quanto soprattutto per la distanza fisica che si aggiunge a quella emotiva visto che il ragazzino vive a Roma, per uno strano scherzo del destino a solo due strade di distanza dalla mia stanzetta d’adolescente, dalla casa che mi ha visto crescere prima di andarmene e a cui puntualmente ritorno per poi riscoprire la voglia di andarmene di nuovo.
Un ragazzino che ha gli occhi ancora pieni delle immagini dei paesi orientali in cui ha vissuto prima della pandemia, che ha curiosità verso ciò che non conosce ma anche un forte senso critico, a cui piace dissentire, aspetti per cui ahimè il mio ex DDR-Liebe era tristemente noto.
Ho toccato il fondo perché nel mezzo di una pandemia non si sa se e quando potremo rivederci, se potremo mai abbracciarci, se potremo mai finalmente toglierci la mascherina e fare l’amore. Mai come adesso queste mi sembrano solo fantasie e non solo per la pandemia, ma anche perché da troppo tempo ormai non ho vissuto quel contatto fisico a lungo ricercato e finito per sognare durante la pandemia.
L’unica fortuna è che almeno stavolta non sto perdendo il sonno pensando a se e quando potremo rivederci, forse sto finalmente abbracciando l’incertezza, anche se dentro di me sento che devo tornare a Roma, a cercare le risposte alle mie domande, perché ho lasciato alcune cose a metà, “I’ve got unfinished business”.
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