Unfinished business


Sono successe così tante cose dall’ultima volta che sono passata di qui che non so nemmeno da dove iniziare…fondamentalmente la vita adesso si divide in ciò che è successo “prima della pandemia” e quello che è successo “dopo la pandemia”. E la vita prima di marzo 2020, prima che il coronavirus travolgesse ognuno di noi, sembra lontanissima.
Con Cervantes siamo riusciti a restare amici, nel senso che ho smesso di cercarlo, evito di frequentarlo in coppia anche perché sinceramente non saprei cosa dirgli. Lui si è trincerato in quella sua incomunicabilità che mi fa sentire di non aver nulla in comune e nulla da poter condividere con lui.
La vita sociale in tempi di pandemia ha subito una drastica riduzione. La solitudine è diventata la normalità, ha spazzato tutto ciò che di buono avevo costruito in questi quattro anni a Bankfurt e l’efficienza teutonica inizia a diventarmi insopportabile. I crucchi e il loro complesso da primi della classe, la loro superiorità perché “il virus non è un problema nostro.” Mortacci vostra.
In questo clima d’incertezza sono riuscita a rivedere il mare, mi sono tuffata in acque cristalline circondata da pesci bellissimi che mi facevano il girotondo intorno come se fossi un’incantevole sirena. Ho capito che sott’acqua è dove mi sento meglio, ad osservare un mondo silenzioso che nasconde infinite meraviglie, visibili solo a chi le sa apprezzare.
Ho visto l’Italia delle contraddizioni, quelle in cui una stella marina è circondata da buste di plastica nell’indifferenza di tutti. L’Italia fatiscente e vicina al baratro, in cui nessuno sembra più stupirsi di niente, tutto è come è sempre stato e sempre sarà. Con la differenza che stavolta nel baratro ci finiamo per davvero.
In uno di quei gloriosi giorni al mare ho conosciuto l’ennesimo tipo cervellotico, misterioso e indecifrabile che ha incrociato il mio cammino, anche se stavolta ci passiamo ben 11 anni di differenza, un ragazzino insomma. Eppure abbiamo trascorso una di quelle giornate perfette, di quelle che il giorno dopo ti fanno svegliare con quella sensazione agrodolce che non vorresti mai lavare via, dalla bocca e dal cuore.
Forse se non fossimo nel mezzo di una pandemia dovrei chiedermi perché mi attirano tanto questi tipi così emozionalmente distanti da me? Ragazzi cervellotici, indecifrabili e misteriosi che poi una volta che finalmente riesci a codificare il loro codice scopri che non significa assolutamente niente. Ragazzi negativi e arrabbiati con la vita, di quelli che se va tutto bene ti mollano perché non hanno fiducia né in loro stessi né nel tuo amore. Perché mi sento sempre come se stessi sul punto di mettermi le scarpe da corsa per correre una maratona dietro qualcuno che poi non vorrà farsi prendere?
Forse se non fossimo nel mezzo di una pandemia sarei qui a chiedermi se posso sperarci almeno stavolta oppure se andrà a finire come tutte le volte precedenti, sarei qui a cercare d’interpretare minimi segnali che forse non sono segnali o che nella migliore delle ipotesi sono segnali che non per forza devono avere un significato, come quando lui mi guarda inaspettatamente negli occhi e mi sorride e io sento un fuoco accendersi dentro di me.
Forse se non fossimo nel mezzo di una pandemia sarei qui a chiedermi perché mi trovo sempre ad elemosinare attenzioni da chi attenzioni non ne sa o non ne vuole dare. Sarebbe davvero il caso di farsi seriamente queste domande e di iniziare anche a cercare una risposta perché da questa dipende la mia felicità.
Ma si dà il caso che siamo nel mezzo di una pandemia e io mi sono riscoperta più fragile e vulnerabile che mai. Ho toccato con mano l’amara verità che la vita è un attimo, che posso ritenermi fortunata perché entrambi i miei genitori sono ancora vivi mentre quelli di alcuni miei amici non ci sono più, e che, in questi mesi difficilissimi in cui anche il più noioso dei lavori si è dimostrato una sicura ancora di salvezza, dobbiamo sfruttare ogni situazione a nostro vantaggio, se abbiamo la fortuna di poterlo fare.
E soprattutto la pandemia ha riportato a galla l’annosa questione mai risolta: qual è la mia casa? Sarei pronta a lasciare la terra teutonica e a tornare in patria italica dopo 13 anni di assenza se ne avessi la possibilità? Sarei pronta ad accettare le incredibili contraddizioni e imperfezioni italiane senza lasciarmi sopraffare da esse? Non è anche questa parte del processo di autoaccettazione?
Ho toccato il fondo perché con il ragazzino la strada è più in salita delle volte precedenti, non solo per gli 11 anni di differenza che pesano e peseranno (non è questo forse un modo per alzare il dito medio alle convenzioni sociali? Non è forse questo uno dei tanti modi in cui la mia incapacità di vivere una relazione sana vuole manifestarsi?), quanto soprattutto per la distanza fisica che si aggiunge a quella emotiva visto che il ragazzino vive a Roma, per uno strano scherzo del destino a solo due strade di distanza dalla mia stanzetta d’adolescente, dalla casa che mi ha visto crescere prima di andarmene e a cui puntualmente ritorno per poi riscoprire la voglia di andarmene di nuovo.
Un ragazzino che ha gli occhi ancora pieni delle immagini dei paesi orientali in cui ha vissuto prima della pandemia, che ha curiosità verso ciò che non conosce ma anche un forte senso critico, a cui piace dissentire, aspetti per cui ahimè il mio ex DDR-Liebe era tristemente noto.
Ho toccato il fondo perché nel mezzo di una pandemia non si sa se e quando potremo rivederci, se potremo mai abbracciarci, se potremo mai finalmente toglierci la mascherina e fare l’amore. Mai come adesso queste mi sembrano solo fantasie e non solo per la pandemia, ma anche perché da troppo tempo ormai non ho vissuto quel contatto fisico a lungo ricercato e finito per sognare durante la pandemia.
L’unica fortuna è che almeno stavolta non sto perdendo il sonno pensando a se e quando potremo rivederci, forse sto finalmente abbracciando l’incertezza, anche se dentro di me sento che devo tornare a Roma, a cercare le risposte alle mie domande, perché ho lasciato alcune cose a metà, “I’ve got unfinished business”.

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L’amore pensato


Solo qualche settimana ho scritto che Cervantes è solo un amico e lo pensavo per davvero ma mi sbagliavo. In una mattina come le altre, di quelle che precedono la giornata lavorativa fatta di pause caffè insieme, mentre correvo a lavoro mi ha stupito mandandomi questa canzone. All’inizio non gli ho dato peso, ma poi riascoltandola ho iniziato a paventare l’ipotesi che abbia voluto dirmi qualcosa. Cervantes, il bel misterioso che finalmente dopo soli due anni vuole comunicarsi con me. E proprio quando ormai non ci pensavo più, eccolo lì pronto a riaprire il vaso di Pandora. E mi ritrovo sempre più attratta da lui, entro di nuovo in questa spirale di eccitazione mista ad euforia adolescenziale, mi torna in mente come mi sentivo due anni fa, quando ero innamorata di lui che poi in realtà ero innamorata di un’idea di lui che abitava soltanto nella mia testa.
Una settimana fa mentre camminavamo in uno strano sabato sera fatto di sorrisoni (i miei), di parole non dette, di sguardi sottecchi e di canzoni cantate dal vivo, lui mi ha messo il braccio intorno alla spalla, io gli ho messo il mio intorno alla vita e abbiamo camminato così per qualche metro. Un contatto fisico bellissimo oltre che del tutto inaspettato. E adesso, mentre lui è a Parigi a festeggiare ferragosto, io non faccio che contare i giorni e le ore che ci separano, pensando al momento in cui ci rivedremo, a quanto la felicità sia a un passo da noi ma anche quanto mi sembra di camminare in bilico come un trapezista su un filo che potrebbe spezzarsi da un momento all’altro.
Mi torna in mente quella sera di settembre di due anni fa quando avevo provato a prendergli la mano senza nemmeno riuscire a sfiorarla perché lui spaventatissimo era stato molto più veloce di me a ritrarla. E dopo quella volta tra noi due il nulla. Solo qualche innocuo momento di flirt, qualche mezzo passo avanti seguito dal niente. Dev’essere così l’amore pensato.
Siamo sicuri che stavolta sarà diverso? Posso fidarmi del mio istinto? Gli piaccio per davvero o sta solo cercando compagnia e attenzione? Quando finiranno le sue contraddizioni? Se vuole iniziare una storia con me perché ha voluto anche dirmi che muore dalla voglia di baciare le altre ragazze, come dice la canzone che mi ha mandato? Tante le domande che mi tengono sveglia alle 5 del mattino, di nuovo come due anni fa.
Nonostante il suo carattere così introverso e insicuro, anche se i miei amici mi scoraggiano dicendo che non può piacermi qualcuno che ha paura persino della sua stessa ombra, mi sento come davanti a una porta socchiusa, devo solo trovare la chiave giusta. Non voglio mollare proprio adesso, anche se lanciare continui messaggi di conforto e di ottimismo stanca e la stanchezza spaventa anche me. Ma ci voglio provare. Perché l’amore pensato non ha senso. “È come un bacio mai dato l’amore pensato”.

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Because I’m me


Sono passati quasi due anni dall’ultima volta che sono passata di qui. Non so perché ho lasciato correre così tanto tempo, forse perché non sentivo l’esigenza di scrivere o forse stavo solo cercando di contenerla, perché volevo vivere e forse perché non mi sono mai più lasciata travolgere come mi era successo con Cervantes. Anche se non era reale quello che provavo, ho deciso di lasciarmi alle spalle tutte queste fantasie e di provare a concentrarmi sulla realtà.
Adesso con Cervantes siamo solo amici ed è molto meglio così. Da tempo ho smesso di cercare di convincere chi per una ragione o un’altra non vuole essere convinto. Che poi in fondo lo sapevo fin dall’inizio che c’era qualcosa che non andava. Peccato.
A volte mi manca provare quelle sensazioni, vivere fantasie ad occhi aperti perché di questo si trattava, mi manca come mi sentivo io quando ero a Bali o quando ho iniziato a frequentare Cervantes. Once again I missed me.
E proprio quando ero più convinta di stare bene, di non avere bisogno di nessuno, è arrivato questo ragazzo che in realtà già conoscevo che ha deciso di avvicinarsi a me, di darmi attenzioni (non richieste) e così per la prima volta da dieci anni a questa parte la situazione si è ribaltata. Adesso non sono io a cercare di convincere qualcuno che la vita può ancora essere bella, ma c’è qualcuno che sta cercando di convincere me. E io che faccio? Ogni volta che il display del cellulare si illumina per un suo messaggio mi viene voglia di scappare in Alaska e non farmi più vedere, il panico è sempre più forte, non so come reagire a tutto questo probabilmente perché non sono più abituata. Non riesco più a stare a braccia aperte, non riesco più a guardare in faccia alla realtà perché sono stata troppo tempo a guardare i ragazzi in vetrina creandomi una vita parallela che esisteva solo nella mia testa e sperando che prima o poi quelle fantasie si avverassero. Forse dovrei semplicemente essere pronta ad accogliere una novità che potrebbe essere bella. O forse no. Ma non posso dirlo adesso.

If she don’t love me, what can I do?
Just put on my best pair of shoes
Because I, I’m me
Because she said, “he’s the one that drill the charms
Honey let’s go wrong”
I just want to know
What’s wrong with me?
Being in love with you

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Wonderwall


Con Cervantes ci stiamo avvicinando, mi sto avventurando in un territorio sconosciuto eppure intriso di ricordi, rivedo la parte di me più vulnerabile ed esposta al bene mettersi in mostra davanti a questo ragazzone di quasi quarant’anni per convincerlo che la vita può ancora essere bella e che tutto ciò che dovrebbe fare è scegliere me, darmi la mano e lasciarsi trasportare. Come cantano gli Interpol “Our heaven is just waiting so put your hand into mine“.
A proposito di Interpol, a fine agosto ho finalmente realizzato il mio sogno di vederli suonare dal vivo. Paul Banks, con l’aria di chi la sa lunga, alternava sorrisi compiaciuti a momenti di noia con la tipica espressione di chi si ritrova a suonare da anni le stesse canzoni, come un impiegato che deve timbrare il cartellino ogni giorno. Eppure quando hanno intonato “Leif Erikson” il mio cuore ha avuto un sussulto; incredula ho provato un brivido dentro e mentre ero l’unica a cantare dalla prima all’ultima strofa, una lacrima di commozione ha attraversato le mie guance. Insomma, gli Interpol non possono portare sfiga.
Mentre mi ritrovo pervasa da una sottile malinconia per l’ennesima estate che si sta congedando, dovrei pensare all’unica settimana di vacanza nel Portogallo tanto amato dal mio Cervantes e invece l’unico pensiero che ho nella testa è Cervantes e il momento in cui ci rivedremo. È indiscutibile che ci stiamo avvicinando ma la grande domanda che resta inevitabilmente aperta è se tutto ciò sta avvenendo per una pura curiosità amichevole per cui qualora dovessi palesarmi si tirerà indietro come hanno fatto in molti prima di lui negli ultimi anni oppure se si è reso conto che questa può essere un’occasione di vivere qualcosa fino in fondo senza rimpianti né paranoie. Sebbene Cervantes mi ricordi tantissimo il mio ex-DDR Liebe spaventandomi a morte, nonostante siamo il giorno e la notte (Toro e Scorpione) adoro le nostre conversazioni da puri nerd linguistici, tutto l’amore per le parole che possono riflettere, anche se Cervantes le parole le centellina sempre. E questo lo rende misterioso e affascinante.

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How soon is now?


La nuova stagione della vita a Bankfurt è iniziata il primo maggio con un trasloco battezzato dalla pioggia e dalle mie lacrime: come i segnali lasciavano già presagire, babyface si è rivelato un ragazzino non all’altezza della benché minima situazione e tutto ciò che di buono avevo visto in lui non era che il frutto della mia illusione, della disperata speranza che avesse potuto funzionare. E invece.
Poi nel posto in cui mai avrei pensato di ritrovarmi attratta da una persona, nel cliché meno originale di tutti, sul posto di lavoro è arrivato Cervantes.
È incredibile come ogni persona di cui più o meno m’invaghisco sia ogni volta un sunto, un tentativo di mosaico di tutte quelle che l’hanno preceduta. Come una coppia in attesa di un figlio si chiede di che colore avrà gli occhi, da chi dei due avrà ripreso il sorriso, se sarà uno sportivo o un hipster, ogni volta che m’invaghisco di qualcuno all’inizio cerco, sembro intravedere caratteristiche o somiglianze di quelli che in passato hanno lasciato un segno o la cicatrice di una ferita: Cervantes è intelligente ed erudito come il ragazzo dai capelli ricci neri e dai modi gentili, ha le stesse origini iberiche del mio very (gay) friend, è alto e moro come il ragazzo con la chitarra di cui mi sono innamorata a sedici anni, ma soprattutto Cervantes parla poco, è introverso e in questo mi ricorda molto il mio ex-DDR Liebe, anche se non è questa la caratteristica che userei per definire l’unica persona con cui finora ho vissuto la Storia d’amore.
Cervantes utilizza poco le parole, nonostante anche il suo mestiere sia quello di giocarci, però parla con gli occhi, con lo sguardo. Tutti gli sguardi che ancora non conosco e che non riesco a decifrare. Per questo resta ancora un mistero, una sfida perché se da un lato a volte scappa via come un animale spaventato, dall’altro lato quando meno me l’aspetto, se trovo la chiave giusta Cervantes si apre e finalmente parla di sé. E per fortuna o purtroppo, come mi è già successo in altri casi che poi si sono rivelati un bluff, m’ispira tanta tenerezza. Sotto quello scudo di formalità in cui si protegge, sento che si cela un uomo sensibile e solo che ha un bisogno disperato di essere amato. Ovviamente mi chiedo come sia possibile che a trentasette anni un ragazzo brillante e piacente sia ancora solo, dov’è il trucco? Dov’è l’inganno?
E dall’altra parte prego che questa sia la volta buona, che sia meant to be perché finora i segnali mi sono sembrati reciproci, al contrario di quanto accaduto con babyface. E nonostante sia vero che l’amore a quasi quarant’anni non può essere lo stesso che a venti, gli sforzi che devo compiere per frenare l’entusiasmo quando i miei sguardi s’incrociano con i suoi, per riaddormentarmi quando mi sveglio improvvisamente in preda all’agitazione sono intensi come quelli di dieci anni fa.
Così in un assolato venerdì d’estate, a conclusione di una settimana di notevoli passi avanti, nelle mie orecchie suonano ancora gli Smiths mentre mi ritrovo a camminare tra la folla impegnata a spendere tra le vie del centro, ubbidiente alle regole del consumismo.
Per caso mi soffermo sulle strofe

I am the son
And the heir
Of a shyness that is criminally vulgar

e ovviamente non è a me stessa che penso ascoltandole: Cervantes, figlio ed erede di una timidezza colpevolmente volgare.

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Please, please, please let me get what I want


Si dice che la vita riesce sempre a sorprenderci: pensavo sarei rimasta al lavoro per il quale ho mollato il Truman Show lussemburghese e invece un lunedì di marzo le mie convinzioni vengono spazzate via da un meeting con il Grande Capo in cui mi dicono che “miss Italia per te finisce qui”, non servo più e a fine aprile ciaone. Quando pensavo di tornare nel Truman show lussemburghese, ecco che invece si profila inaspettatamente l’ipotesi di restare. A lavorare con le parole. Il mio mondo.
E poi in un piovoso sabato sera mi ritrovo a flirtare con baby face, un bravo ragazzo dalla faccia pulita, quello cute che non sa di esserlo ma che soprattutto ha 10 anni meno di me, io che mi ero lasciata vincere dai miei pregiudizi e che in un primo momento lo avevo evitato come la peste. Così mi ritrovo improvvisamente attratta da un perfetto sconosciuto, con cui probabilmente non avrò molto in comune, un ragazzino che sta facendo la sua prima esperienza fuori dalla sua terra ellenica, che mi guarda con interesse, ci guardiamo a lungo, ci scrutiamo, ci studiamo in attesa di vedere chi dei due farà la prima mossa di avvicinamento. Ma che ci faccio io con un ragazzo così giovane, anche un po’ negativo e conservatore? E poi perchè il fantasma dell’ex-DDR Liebe torna sempre così prepotentemente alla ribalta? Perché babyface me lo ricorda, a volte? Dove mi porterà un’eventuale storia con lui? E se finisco con le ossa rotte anche stavolta? Non avranno ragione le mie amiche quando mi dicono che se ci sono già dubbi allora non conviene nemmeno iniziare?
Invece mi ritrovo a pensare che vorrei restare, anche se fosse solo per vedere se quella con babyface potrebbe essere l’inizio di qualcosa, una storia leggera, che in questo momento forse è proprio di un po’ di leggerezza di cui ho bisogno. Qualcuno che mi riporti indietro nel tempo, qualcuno da proteggere, per rispecchiarmi nei suoi vent’anni donandomi attraverso la sua giovinezza anche un po’ di quella innocente e genuina fiducia nel genere umano, un po’ di speranza, quella che sembra persa nei momenti bui.
Forse è vero quello che dice il detto follow the flow, a volte tutto ciò che dobbiamo fare è seguire la corrente: un attimo prima ero pronta a fare le valigie e a tornare nel Truman Show lussemburghese, un attimo dopo accarezzo la possibilità di tornare a lavorare nel mio mondo.
In più ho anche trovato casa da sola e veramente tutto sembra andare sorprendentemente bene, sembro attraversare un’ondata positiva in cui tutto ciò che più desideravo sta arrivando: nuovo lavoro, nuova casa, nuove esperienze. La primavera imminente forse porterà un po’ di rigenerazione anche nella mia vita e tutto ciò che posso fare è godermela, lasciarmi cullare e trasportare.

Magari è anche arrivato il momento di sostituire gli Interpol con gli Smiths. Chissà che non portino bene.

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Questa è la mia casa


Ultimamente torno a fare i conti con il concetto per me alquanto travagliato di casa: mentre cerco ossessivamente di mettere ordine in un appartamento a due piani che, sebbene io contribuisca ogni mese a una parte dell’affitto, non sarà mai casa mia, semplicemente perché non l’ho scelta, io che odio la moquette e che sono così pigra che rinuncerei volentieri a fare le scale anche se fosse solo per farmi il caffé appena sveglia.
Forse perché superando la metà dei 30 anni è arrivato il momento di dare una definizione concreta al concetto di casa, home, heimat. Perché davanti a quel formulario da compilare sei mesi fa, alla voce “home address” sono andata in crisi e pian piano mi sono accorta che effettivamente la mia casa è molto più il Truman Show lussemburghese nel quale risiedo e pago le mie (poche) tasse che l’Italietta delle polemiche e delle mazzette che ho lasciato ormai quasi dieci anni fa. Forse perché a luglio di quest’anno saranno passati esattamente dieci lunghi anni da quando me ne sono andata via di casa in un’estate di tanti anni fa con l’intenzione e la consapevolezza di non tornare per un bel po’. E chiamarla festa “d’addio” faceva già presagire le mie intenzioni, mentre mio padre diceva “non dire festa d’addio perché altrimenti sembra che non tornerai”. E infatti.
E poi tutti che ti dicono “ma davvero ti piace il Truman show lussemburghese? E cosa ci trovi di tanto speciale, di così unico (sottinteso: in un buco di culo di paese come quello) che non puoi trovare qui in terra teutonica?” e mi fanno sentire un’incompresa.
Sarà che la parte più teutonica di me sta urlando da quando sono andata via che vuole più spazio, più ordine, più tempo per meditare e per pensare, più silenzio, invece di questo continuo brusìo di sottofondo, di questo incessante movimento. Forse perché quando sono tornata nel Truman show lussemburghese per qualche giorno a gennaio mi sono ritrovata a dover centellinare ogni ora, ogni minuto tra attenzioni da dare e doveri burocratici da assolvere. Tutto ciò per dire che potrei finire l’anno nel Truman Show lussemburghese: un po’ per gioco, un po’ per nostalgia, ma soprattutto per dare un senso al concetto di casa, sono finita in un altro lungo processo di selezione nel Truman Show lussemburghese, molto simile a quello che si è concluso a metà ottobre scorso con il trasferimento in terra teutonica. “Se devo fare lo stesso lavoro di merda, posso farlo anche tornando a casa”, mi sono detta.

Insomma, è arrivata ora di chiudere parentesi o per dirla con una metafora scontata, è arrivato il momento di iniziare a mettere radici perché non ha più senso avere nostalgia di tutto ciò che non si ha. Se c’è qualcosa per cui vale la pena lottare è bene agire rapidamente, perché poi il tempo passa e tutto scorre, per cui se devo tornare nel Truman Show lussemburgo è bene farlo subito. Stavolta non è la nostalgia idealizzata che provavo per Berlino, è un sentimento ben più maturo, al passo con questa fase di post-giovinezza. È proprio vero che la lontananza ti fa vedere le cose da una nuova prospettiva più vera: mi sono resa davvero conto delle relazioni umane che avevo costruito negli anni, degli amici diventati famiglia, di un appartamento in affitto che negli anni era diventato una piccola dimora stretta nel cuore, di gesti quotidiani che mancano, di una vicina di casa che mi ricordava tanto mia nonna.
La falsa convinzione che quello che ci manca e che desideriamo sia per forza migliore di ciò che abbiamo è del tutto ingannevole perché lasciando qualcosa saremo inevitabilmente messi di fronte a nuove sfide e difficoltà che non siamo in grado di mettere a fuoco finché non abbandoniamo la zona di comfort.
Attualmente quindi non ho una fissa dimora, non ho un luogo da chiamare casa ma ci sto lavorando e se dev’essere il Truman Show lussemburghese, che lo sia.

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Disorder


Sono passati già quasi tre mesi dall’inizio di questa nuova versione di vita teutonica e siamo già arrivati a un nuovo anno. Sebbene da un lato il tempo mi sia scivolato leggero tra le dita, dall’altro mi sembra di stare qui già da tempo e inizio a soffrire di una certa insofferenza.

Penso spesso al ragazzo biondo che suona la batteria nel Truman Show lussemburghese, purtroppo il crudele destino dei social network mi aggiorna su ogni suo movimento, anche quando non vorrei. Mi chiedo spesso cosa sarebbe successo se solo non fossi partita, se fossi rimasta, se avremmo potuto frequentarci e poi chissà. Quanti se e quanti ma. Eppure da ciò che fa trapelare dai social network ne esce un ragazzo dall’animo puro e sensibile e non posso fare a meno di restare con l’amaro in bocca. Ascolto musica nuova per poi scoprire che è la stessa che piace anche a lui e faccio appena in tempo a rendermi conto che i contatti tra noi si stanno già perdendo, colpa della lontananza e del fatto che ci siamo conosciuti quando il conto alla rovescia segnava già meno 14, a due settimane dalla mia partenza, too late.

Mi manca il Truman Show lussemburghese, anche se mi pesa molto ammetterlo. E’ incredibile come per quanto abbia lottato con tutte le mie forze, quel posto che ho odiato e detestato per tre lunghi anni sia diventato la mia casa e adesso farne a meno è così difficile. Mi mancano persino i piccoli gesti quotidiani insignificanti, a volte mi sento come sdradicata con violenza in un posto che non riconosco. Vorrei non essere tutte le volte così terribilmente nostalgica, mi piacerebbe essere più pragmatica. E invece è così: sono andata a Cuba per due settimane e al mio ritorno Bankfurt non mi era mai sembrata così distante, è stato uno shock scoprire che non riconoscevo affatto questa città in cui mi sono trasferita. Tutto il contrario del mio ritorno nel Truman show lussemburghese: in realtà mi è sembrato di non essermene mai andata. La sensazione di familiarità con i luoghi in cui per un motivo o per un altro non si vive più è difficile da spiegare, deve assomigliare a quella che prova un bambino quando impara a muovere i primi passi dopo aver lasciato la mano dei genitori: quel misto di incredulità e appartenenza del tipo “sono qui, riesco a muovermi in tutta autonomia eppure io ancora appartengo a questi luoghi”, questa è per me la sensazione di casa. Non mi sarei mai aspettata che potesse succedere questo con il Truman Show lussemburghese, eppure proprio ora che vivo a 290 km di distanza mi rendo finalmente conto di tutto ciò che a fatica ma anche con un po’ di fortuna ero riuscita a costruirmi e a quanto, ad eccezione della situazione lavorativa, avessi finalmente trovato la mia dimensione.
Sicuramente ho caricato di troppe aspettative il ritorno alla vita teutonica, avevo sottovalutato che al giro di boa dei 30 anni non è affatto facile ricostruirsi una vita piena dal punto di vista sociale perché, insomma, alla fine sono le persone che incontri a fare la differenza.
La convivenza col very (gay) best friend è diventata solo disordine e frustrazione e prima di farci definitivamente a pezzi, ho deciso che è meglio ritraslocare e cercare di trovare la mia dimensione. A volte sembriamo una coppia, anche dal di fuori diamo quest’impressione e questo è deleterio. Mi dà fastidio il fatto che nessuno ci capisce, che tutti vogliono sempre incasellarci in qualche convenzione sociale già scritta e approvata. Forse devo arrendermi al fatto che per quanto possiamo starci vicino e vivere fianco a fianco, ci sarà sempre una parte dell’altro che non capiremo perché siamo molto uguali e molto diversi allo stesso tempo e scaricando l’uno sull’altro le nostre frustrazioni non facciamo altro che ferirci.

A Cuba sono stata bene ma non sono riuscita a lasciarmi andare. C’era sempre come un rumore di sottofondo che non mi faceva mai ottenere una visione d’insieme e non ho ritrovato quella dimensione magica che c’era a Bali. Forse perché mancava lo stupore, mi è mancato sentirmi come mi ero sentita in quell’estate magica. I missed me.

Continuo a chiedermi cosa ci faccio qui, se sia stata una buona idea mollare tutto e di fronte alle sfide che mi si affacciano in questo nuovo anno non posso fare a meno di sentirmi insicura e insofferente. E sti cazzi se in un sabato sera come tanti me ne sto da sola a casa a recuperare quella dimensione di solitudine di cui a volte ho un vero bisogno.
A volte mi pesa molto aver rinunciato a quell’unica dimensione creativa che c’era nella mia vita, a volte mi sembra di vivere in apnea, di trattenere il respiro, di stare perdendo un po’ il feeling e di andare verso una vita più grigia, mentre invece avrei solo un gran bisogno di lasciarmi andare.

I’ve been waiting for a guide to come and take me by the hand
Could these sensations make me feel the pleasures of a normal man?
New sensations barely interest me for another day
I’ve got the spirit, lose the feeling, take the shock away

Until’ the spirit, new sensation takes hold, then you know
Until’ the spirit, new sensation takes hold, then you know
I’ve got the spirit, but lose the feeling
I’ve got the spirit, but lose the feeling

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vince chi molla


Ci siamo quasi, sono arrivata agli sgoccioli, sono gli ultimi giorni nel Truman show lussemburghese, mi ritrovo in una casa svuotata di tutti i ricordi che in questi quattro anni e mezzo hanno fatto di queste quattro mura una dimora accogliente. Sono ancora giorni concitati, l’infinita burocrazia non sembra volermi lasciare scampo e appena finisco una cosa, ecco che subito ne arriva un’altra da fare, con altrettanta urgenza. Macino chilometri a piedi, fiato nelle gambe e nei polmoni e non c’è tempo di fermarsi né di pensare.
La vacanza al mare che ancora sogno per il momento si è trasformata in un weekend a Madrid, sono tornata a Fuencarral e ancora mi sembrava di vedermi lì a camminare a passo spedito verso la Puerta del sol, con il sole in faccia, una cartina in mano e il cuore ancora nel Truman Show lussemburghese, dove l’avevo lasciato a novembre scorso. Di quelle tre settimane resta il ricordo di una sacrosanta pausa alla scoperta e alla ricerca di un’alternativa, in cui le preoccupazioni più grandi erano come far conciliare la vita da turista con quella da studentessa ormai attempata.
Del Truman show lussemburghese che mi accingo a lasciare restano i contatti con chi con coraggio e nonostante un fiume di paranoie cerca di conciliare un lavoro “per tirare a campare” con la passione per la musica, le persone che mi sono state vicino in questi anni, nonostante tutto, la comodità di avere tutto a portata di mano e la mia anziana vicina che mi ricorda tanto la mia nonna scomparsa troppo presto.
Non so cosa mi aspetta nella vita teutonica verso la quale sto andando, so già che non potrò contare molto sul mio very (gay) best friend e che i suoi “amici” probabilmente non saranno mai i miei.
Ma forse per il momento posso far lasciare andare anche queste preoccupazioni.
Per ogni tipo di viaggio
Meglio avere un bagaglio leggero

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L’importante è finire


Consumo fazzoletti come caramelle, il mio corpo da fine agosto mi sta dicendo di fermarmi un po’, anche se in realtà non riesco a stare ferma un attimo, con tutte le cose da fare mi sembra sprecato passare il tempo a oziare, mi sento in colpa, ma in realtà è l’unica cosa di cui avrei bisogno. A lavoro la situazione si fa sempre più insostenibile, la guerra è dichiarata fino all’ultimo colpo, fino all’ultimo giorno e ormai è iniziato già il conto alla rovescia verso la fine. Poi mi rendo conto che per quanto abbia odiato il Truman show lussemburghese, ci sono anche persone che hanno riempito il mio quotidiano da cui mi dispiace separarmi, non è stato affatto facile trovarle e non è così scontato che ce ne saranno altrettante nella vita teutonica che si profila al mio orizzonte. Venerdì scorso trascorro una piacevole e inaspettata serata con quel musicista calabrese esaltato che avevo adocchiato l’anno scorso quando era ancora fidanzato, ci ritroviamo a parlare di musica ed è stato bello riconoscere i miei gusti nei suoi, la sua passione per i Beatles che per me hanno sempre significato infanzia e quindi casa in un certo modo. Forse avrei dovuto utilizzare sempre i Beatles come spartiacque per distinguere chi vale la pena dagli stronzi. Guardarlo mentre raggiante spalanca i suoi occhioni azzurri per raccontarmi del suo ultimo album inciso col gruppo e la tournée prevista per l’anno prossimo, ecco che la mia indole adolescenziale rispunta fuori e mentre penso “wow, sto parlando con un musicista vero!”, mi lascio contagiare dal suo entusiasmo, merce rara nel Truman show lussemburghese, e fantastico su un’improbabile storia d’amore. La parte più razionale invece cerca di proteggermi bannando ogni facile infatuazione in preda al fascino del musicista perché “non lo conosci per niente” “e poi sei matta! Te ne stai andando, devi chiudere tutte le porte prima di aprirne un’altra, così come si conviene a chi si trasferisce e sta per iniziare una nuova vita”. E poi passi che butto nel cesso ogni possibilità durante tre settimane a Madrid, ma adesso stiamo parlando di sei mesi a Francoforte, no puede ser.
Forse è la mia paura di fare il famoso salto fuori dalla mia zona di comfort che mi sta tendendo l’ennesimo tranello, questa costante paura e allo stesso tempo necessità di appartenere a qualcuno o un luogo che poi in fin dei conti si rivela soltanto deleteria e autodistruttiva. E ok che mi ha scritto “sei una grande”, ma quello tra dieci giorni manco si ricorderà chi sono. E poi la paura di combinare solo casini, della serie “sei una buona a nulla e col ca**o che ti rinnovano ad aprile” “hai provato a fare come tutti i vincenti che hanno trovato di meglio ma nel tuo caso non funzionerà” e quindi forse prima che mi lasci travolgere del tutto da questi pensieri negativi, forse davvero l’unica cosa è importante adesso è finire. L’importante è finire.

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